La lampada

Una riflessione amazzonica

Da circa due mesi mi trovavo nella giungla amazzonica, non lontano da Puerto Maldonado, città spartiacque tra il mondo degli uomini e quello della Natura. Durante quel periodo avevo imparato a muovermi più agiatamente in quell’ambiente, così lontano da ciò a cui ero abituato, sentendomi più sicuro grazie anche all’esperta guida ed insegnamento di chi in quel luogo ci era cresciuto o vissuto da molto tempo. Ma forse avevo imparato solo a nasconderle meglio le mie paure, che difatti riaffiorarono in tutta la loro potenza in una calda serata di fine agosto.

In quel periodo si stavano svolgendo le qualificazioni del mondiale di calcio, che avrebbe avuto inizio l’anno successivo in Russia e il Perù quella sera, per la prima volta nella sua storia, si giocava una grande occasione per farne parte. Il campo base in cui mi trovavo era un crogiolo delle più disparate nazionalità ma in quel periodo tutti quanti eravamo divenuti fedeli supporter di quel paese che ci aveva accolti così calorosamente, in uno dei luoghi più affascinanti in cui io fossi mai stato.

L’eccitazione era già palpabile fin dal mattino. Bladimir, ineguagliabile cuoco del campo base, stava preparando qualche leccornia a base di platani da accompagnare durante la visione serale del match, mentre altri tre giovani ragazzi taglialegna ci istruivano sugli idoli nazionali che avrebbero potuto consegnare la loro nazionale di calcio alla storia. Ricordo che, tuttavia, la mia principale preoccupazione fosse cosa avrei indossato quella sera, dove saremmo stati seduti per circa due ore immobili su una sedia. In quel periodo dell’anno la giungla era un forno a cielo aperto con un tasso di umidità che portava ad una sudorazione e perdita di liquidi mai sperimentata prima. Tuttavia, l’ultima cosa che avrei voluto fare era assistere immobile ad una partita di calcio con parti del mio corpo scoperte, ben conscio che il mio più grande incubo si aggirava indisturbato in quelle zone della giungla: il Leishmania Infantum.

Si tratta di un parassita che viene trasmesso dalla puntura di una zanzara causando la formazione di una piccola ed apparente innocua escrescenza sulla pelle a forma di vulcano che pian piano si allarga divenendo una visibile lesione cutanea senza possibilità di rimarginazione se non tramite l’assunzione endovena di metalli pesanti che ne bloccano il ciclo di riproduzione. Fin dal primo giorno in cui mi raccontarono dell’esistenza di quel minuscolo essere ne fui letteralmente terrorizzato, più di ogni altra creatura potenzialmente mortale esistente in quel luogo. Abbigliamento lungo e un’abbondante dose di spray repellente erano due elementi sempre presenti nella mia routine mattutina prima di andare in esplorazione ma la quantità di moscerini e zanzare presenti in alcune zone della foresta era tale che si finiva sempre per ritornare con qualche puntura sul corpo a fine giornata.

Verso il tramonto ci preparammo e dopo una quindicina di minuti di navigazione in barca attraversammo il fiume che separava il campo base al piccolo villaggio in cui si trovava un fatiscente chiosco circondato da strade polverose, galline spelacchiate e bambini perennemente sorridenti. Spendemmo qualche tempo parlando del più e del meno in attesa del match allestendo lo spazio con qualche sedia e tavolini dove appoggiare le prelibate leccornie preparate da Bladimir. E in quel clima di apparente calma e tranquillità avvenne l’imprevisto.

Mi si avvicinò una minuta ragazza del villaggio che puntando il dito verso una lampada appesa al tetto di lamiere mi sussurrò qualcosa in una lingua a me totalmente sconosciuta. Una ragazza del gruppo venne in mio soccorso e mi disse che, vista la mia altezza, mi era stato chiesto di cambiare la lampadina che lampeggiava da qualche giorno e andava cambiata. Non ci sarebbe stato bisogno di una scala, ci sarei arrivato senza problemi, una faccenda di pochi secondi. “Pochi secondi un cavolo” pensai dentro di me senza distogliere lo sguardo verso l’alto: una nube densa di moscerini vi si aggirava attorno e l’ultima cosa che avrei voluto fare era infilarvici la mano per svitare e cambiare quella dannata lampadina.

L’espressione sul mio volto deve aver svelato tutta la mia inquietudine visto che dopo pochi secondi mi trovai circondato da coloro che consideravo miei fedeli compagni di avventura che con un sorriso beffardo mi invitavano ad aiutare quella povera ragazza al grido di “Italia! Italia!” e “Leishmaniosi!  Leishmaniosi!”. L’essere umano può essere davvero stronzo. “Maledetti traditori, altro che tifare per il Perù” pensai tra di me. Ero in trappola, decine di occhi puntati su di me non aspettavano altro che mi avvicinassi per adempiere a quell’ingrato compito. Mi vedevo già coperto di pustole vulcaniche in ogni parte del corpo costretto a sottopormi a dolorose iniezioni per uscirne vivo.

Con me non avevo nulla per proteggere le mani, sicuro che le avrei tenute ben nascoste in tasca, togliendole occasionalmente per grattarmi il naso o per assaggiare qualche platano fritto. Controvoglia e con un sorriso di circostanza mi feci passare la nuova lampadina e mi misi al di sotto di quella mal funzionante. Sopra di me si stagliava una danza infernale di moscerini. Alzai il braccio e in un lasso di tempo che sembrò infinito svitai la lampadina e la cambiai con quella nuova accarezzato da quella nube densa di piccole creature. Intorno a me scoppiò un fragoroso applauso accompagnato da pacche sulle spalle in segno di gratitudine ma dentro di me provavo solo sincera rabbia e terrore.

Guardai la partita in uno stato emotivo di forte preoccupazione, che cercai costantemente di rassicurare e controllare convincendomi che ero stato veloce nel cambiarla, che non avevo percepito nessun pizzico sulla mano e che in fondo, per quanto fosse densa quella nube, non potevo essere stato cosi sfortunato da essere stato punto proprio dal moscerino portatore della malattia. I giorni successivi furono caratterizzati da un ossessivo osservarsi mani e braccia, da un continuo alternarsi di stati emotivi al primo puntino sospetto comparso sulla pelle e da un incessante lavorio mentale di rassicurazione sul fatto che tutto fosse andato bene, finché decisi di mettermi il cuore in pace e godermi al meglio quella straordinaria esperienza che stavo vivendo.

Ho voluto condividere questa esperienza come pretesto per descrivere un avvenimento che pur rappresentando una situazione di pericolo oggettivo rivela quanto la mia preoccupazione, paura e disagio fossero causate esclusivamente da un utilizzo incontrollato di due potenti strumenti, mente ed emozioni, che accompagnano ed influenzano ogni instante della vita di noi tutti esseri umani e di cui incredibilmente la maggior parte delle persone conosce assai poco, maggiormente interessata ai luccichi della vita esterna. Viviamo in un’epoca molto particolare ed affascinate in cui a lato di un mondo sempre più in preda al caos e alla sofferenza esistono scuole di ricerca interiore in possesso di una conoscenza e di un sapere che se studiato, compreso e realizzato, ha la potenzialità di donare ad ogni essere umano una maggiore consapevolezza, gioia e potere sulla propria vita. Inner Innovation Project ne è un perfetto esempio.

Per la cronaca, il Perù vinse quella partita e si qualificò ai mondiali e a sei anni di distanza da quella terribile serata posso dire con maggiore sincerità: “Forza Perù!”

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