La vita di cui non ci accorgiamo
LO YOGA DELLA POTENZA
A circa vent’anni sono rimasto folgorato dalla copertina di un libro, che ho subito comprato. Su campo bianco troneggiava un cerchio rosso e davanti al cerchio un volto tratteggiato: era il volto di uno yogi indiano. Una faccia per nulla ieratica e rassicurante; anzi, sembrava esprimere una qualità più proclive alla battaglia piuttosto che all’introspezione. Sopra alla figura, a grandi caratteri, il titolo: “Lo Yoga della potenza”. È un complesso trattato sulla via del Tantra, di cui all’epoca non conoscevo nulla.
Titolo e immagine mi colpirono a tal punto che li ricordo benissimo ancora oggi. Comprai il libro, lo lessi e… non ci capii assolutamente nulla. Non pago della prima defaiance, acquistai un secondo tomo, della medesima collezione e altrettanto voluminoso. S’intitolava: “Il risveglio di Kundalini”. Vorrei dire che lo compresi ancor meno del primo, se non fosse che, con lo “Yoga della potenza”, avevo già toccato il fondo dell’incomprensione.
Beh, per quanto possa apparire illogico, quei testi – a me del tutto oscuri – mi fecero comprendere un fatto: la vita non era quella cosa di cui tutti parlavano; o quanto meno, non era solo quello. Ciò che avevo letto era certamente difficile da capire e, a tratti, a dir poco criptico per il linguaggio utilizzato, però disegnava a tinte forti un mondo che fino a quel momento per me non era mai esistito.
L’essere umano non era descritto come quell’insieme di pulsioni e pensieri che io conoscevo, ma come una specie di centrale nucleare dal potenziale sorprendente, e l’universo in cui viviamo appariva come un fantascientifico e pirotecnico insieme di fenomeni potenti e fra loro correlati.
I due testi parlavano dello Yoga e della sua metafisica. Argomenti antichi e complessi, che più avanti scoprii interfacciati con molte altre tradizioni presenti sul pianeta da migliaia di anni. Improvvisamente, l’uomo non era più una creatura semplice e fragile, caduca e peritura, ma una macchina spaventosamente complicata, della quale conoscevamo meno di un milionesimo; e dietro a questa incredibile centrale operativa, qualcosa di ancora più astruso e complesso, fatto di sostanza sottile e interfacciato con un’essenza immortale, che è stata definita in molti modi diversi, ma che io preferisco chiamare “coscienza”.
Ciò che più mi sorprese a quei tempi, fu il modo in cui si parlava di argomenti metafisici con un tecnicismo da scienza moderna. Erano descritti universi e mondi inimmaginabili e funzioni proprie al potenziale umano, che potevano essere risvegliate attraverso tecniche astruse e precise. In altre e più semplici parole, si affermava che la vita è completamente diversa da quella che appare e che esistono sistemi d’indagine che permettono di arrivare a vedere con i propri occhi la realtà nascosta dietro alle apparenze.
ENTUSIASMI FRUSTRATI
Con il classico entusiasmo giovanile cominciai a parlare a tutti di questi libri e di quello che descrivevano, facendo una scoperta per me abbastanza inquietante: a nessuno interessava un accidente di quegli argomenti. A prescindere dall’età anagrafica di coloro a cui confessavo la mia nuova passione, il risultato era più o meno lo stesso, e variava da un cordiale disinteressamento, ad una più spocchiosa manifestazione di ironia.
Dato che in genere i ragazzi sono proclivi ai facili giudizi ed io non facevo eccezione, giunsi rapidamente alla conclusione che la maggior parte delle persone erano fondamentalmente stupide. Ritenevo infatti che si dovesse essere veramente stupidi per non incuriosirsi nei confronti di qualcosa che avrebbe potuto sovvertire la comune visione della vita.
Beata ingenuità! Occorse molto, ma molto tempo, perché comprendessi che la stupidità non era la causa principale di quel generale disinteresse. Prima d’essa venivano la paura di allontanarsi da sicuri territori, anche se poveri e poco gratificanti, l’attaccamento alle cose materiali, i condizionamenti che riducono la capacità di pensare e tutta una serie di concause che rendono l’essere umano mediamente poco entusiasta a lanciarsi verso territori sconosciuti.
In seguito, negli anni a venire, fui sollevato dallo scoprire che esistono anche tantissime persone che si fanno molte domande, anche se quasi mai sanno dove sbattere la testa per ottenere le risposte.
Così, iniziò il mio percorso di ricerca sui misteri della vita. In questo cammino ho capito che ciò che chiamiamo Verità è qualcosa che si allontana man mano che noi lo avviciniamo.
La Verità non è una dimensione stabile come la mente comunemente può immaginarla, non perché non esista un’Origine stabile, ma perché la possibilità di percepirla varia enormemente secondo il punto di vista dell’osservatore.
Così, accade che oggi la realizzazione di un aspetto della vita possa apparirci come un traguardo, ma una volta realizzato possiamo accorgerci che si trattava solo di un nuovo punto di partenza per infinite e sconosciute diramazioni, le quali non erano nemmeno ipotizzabili quando osservavamo dalla posizione iniziale.
Man mano che la coscienza si espande e la consapevolezza cresce, aumenta anche la percezione della relatività delle nostre osservazioni e con essa, l’intuizione dell’immensità di ciò che resta ancora da capire.
La Verità non è una meta, ma piuttosto un’idea che ci spinge nella direzione di un viaggio dalla durata impossibile da stabilire.
La bellezza della ricerca risiede nel percorso e non nel punto di arrivo. La poesia della ricerca sta nel fatto che in ogni istante possiamo scoprire il nuovo. Ciò che oggi è una realizzazione, domani può trasformarsi in un limite. Se così non fosse, quello che definiamo Divino, sarebbe ben poca cosa.
LA CORRENTE DEL SAMSARA
Quando mi siedo in un bar e mi guardo attorno, osservando il via vai delle persone, gli stati d’animo di ognuno, le preoccupazioni o l’allegria di questo e quello, ancora oggi mi chiedo dove sono. Cosa mi circonda? Quello che vedo è un palcoscenico. Ogni singola vita ha un percorso incerto, eppure ognuno è seriamente identificato nel suo ruolo del momento.
Vedo persone che camminano avanti e indietro, parlando al telefono di argomenti per loro vitali, altre che siedono due tavoli più in la, con lo sguardo fisso nel vuoto e l’espressione di chi è infelice e senza speranze. Uomini e donne che camminano per la strada con la testa altrove. Bambini che giocano e vecchi che a stento salgono un gradino. Vedo quel grande e continuo movimento che i buddhisti chiamano samsara e diventa comprensibile l’antica frase “il pieno e vuoto e il vuoto è pieno”.
Penso al fatto che nessuno si ferma, per chiedersi chi sia, dove si trovi, dove stia andando e… perché fa quello che fa. Il significato della vita è in secondo piano. Quello che devono fare è ciò che conta. Quello che “devono” fare. Questo è il secolo del “fare”. Tutti fanno. Tutti fanno. Quel che fanno, è meno importante del perché. Perché lo fanno, è secondario. A cosa mirano… quale è la meta?
A chi è capitato di essere trascinato dalla corrente di un fiume e non riuscire a guadagnare la riva? A me è successo. Non è una bella esperienza. Quando accade non esiste il tempo per contemplare gli alberi e i fiori sulle sponde, si può solo scorrere confusamente lo sguardo attorno, per trovare qualcosa a cui aggrapparsi, o individuare un approdo verso cui la corrente potrebbe trascinarci.
Poi ci sono quelli che si mettono su un affare di gomma e si lanciano come pazzi lungo un impetuoso torrente. Loro non cercano approdo, né appiglio; al contrario, godono dell’adrenalinica corsa verso l’ignoto.
Anche loro, però, non hanno il tempo per guardarsi attorno; la corsa sfrenata è tutto il loro mondo.
ESSERE SE STESSI
Ecco, la vita delle persone mi sembra per molti versi simile a questi casi. Entusiasti della corsa verso il successo, l’avventura, le nuove esperienze; oppure trascinati dalla corrente alla continua ricerca di un punto d’appoggio, di una sicurezza, di un appiglio, di sempre nuove emozioni.
In tutti i casi, comunque, la vita scorre rapida e nulla di ciò che sta attorno è importante. Nessuno pensa che fermare la corsa sia rilevante. Chi cerca un appiglio lo fa per timore della corrente e non per guardarsi attorno. Chi ama il flusso più di ogni altra cosa, nemmeno pensa che esisterebbe una ragione per fermarsi e capire dove si trova.
Il samsara è un immenso e rapido fiume che trascina tutto a valle. Sedere in un bar, o scalare l’Himalaya, non fa nessuna differenza, perché sia l’uno che l’altro, sono solo ombre, ombre proiettate da una luce che non interessa a nessuno.
Un tempo ero animato dal desiderio ardente di parlare a tutti dell’esistenza di un mondo parallelo e sconosciuto, scoprendo il quale la vita di ognuno cambierebbe in meglio. Oggi ho ancora il desiderio di comunicare, ma certamente lo faccio con maggiore distacco emotivo, senza l’attesa di risultati eclatanti (o addirittura visibili).
Sono giunto alla conclusione che esista un solo modo veramente profondo per comunicare ciò che si vive e si è compreso della realtà: essere se stessi in maniera consapevole e cercare di divenire sempre più simili a quello che in se stessi si percepisce come profondo e vero, al di là di ogni retorica.