IL FENOMENO PIU’ COMPLESSO DA CAPIRE E ACCETTARE È SICURAMENTE L’IMPERMANENZA DELLE FORME MATERIALI. QUESTA TESTIMONIANZA, CHE PARLA DI VITA E MORTE, NON È SOLO DOLCE, MA ANCHE MOLTO PROFONDA E SIGNIFICATIVA. IN ORIENTE, SOPRATTUTTO NELLE VISIONI INTERIORI DI INDIA E TIBET, LA VICINANZA CON IL PASSAGGIO DALLA MATERIA ALL’ASTRALE È OGGETTO DI MEDITAZIONE E STUDIO DELLA REALTA’. UN INSEGNAMENTO DA FAR PROPRIO E TENERE STRETTO. BUONA LETTURA.
La prima persona che ho visto morire fu mio padre, trent’anni fa. Ma fu breve, veloce. Mia madre mi chiamò a mezzanotte dall’ospedale dicendomi: «manca qualche ora, se vuoi salutarlo vieni subito qui». Presi l’auto e li raggiunsi. Ho ricordi confusi, sono passati trent’anni ed ero giovane, in tutti i sensi. Ricordo bene che mia madre andava e veniva per i corridoi dell’ospedale cercando medici e infermieri, impossibili da trovare in certi orari notturni, e nei momenti in cui lei non era al suo capezzale ero io a tenere la mano di mio padre. Mi pareva così strano, ero impacciata: non eravamo mai stati così intimi.
A un certo punto mi accorsi che stava cambiando qualcosa nel suo respiro, nell’espressione del suo volto, e capii che ciò che stava succedendo era definitivo. Se ne accorse anche lui, pur essendo stato dichiarato in coma, e decise infatti di allentare la presa della mia mano sotto il lenzuolo per cercarne un’altra. Quella di mia madre.
Qualche minuto dopo mio padre lasciò il corpo, la malattia, la paura, e tornò a casa.
Ricordo questo momento come uno dei più intensi della mia vita. Probabilmente non capii nulla della morte ma realizzai il valore della gratitudine, della riconoscenza. Compresi la giustezza della sua scelta di compiere il trapasso stringendo la mano di mia madre: lei lo aveva accompagnato nelle paure e nelle sofferenze della malattia, durata quasi vent’anni. Ugualmente vissi un grande senso di liberazione, di leggerezza, nel sentire che quella ormai troppo incidentata carrozzeria era diventata totalmente inutile, per l’anima di mio padre. Che momento di pura felicità, fu per me!
Dopo il funerale, anziché aspettare mia madre, mia sorella e i parenti stretti, tornai a casa correndo lungo la strada campestre che dal cimitero conduceva a casa dei miei genitori. Avrei voluto cantare, ma una voce mi diceva che non andava bene, che non si fanno certe cose, così mi trattenni. Alla luce di ciò che ho appreso dopo, timidamente riconosco in quella felicità una minuscola realizzazione, di quelle che arrivano con naturalezza, senza sforzo, che non hai mai cercato e che neppure ti aspettavi, ma che una volta vissute fanno di te una persona diversa. Non migliore né peggiore, solo diversa.
Sta poi a ognuno di noi conservare e ricercare il sapore di quella diversità per proseguire sulla strada che abbiamo intuito come maestra. Io, a quel bivio, mi sono un po’ persa tra fidanzati che andavano e venivano (soprattutto andavano), avanzamenti di carriera, viaggi, romanzi e letteratura. La vita era tornata quasi subito ad essere bisogno di emozione. Adrenalina, fondamentalmente. Ma quel ricordo, quel sapore è riuscito a sopravvivere in me, nonostante la testa dura e le ampie cicatrici sulla pelle del cuore.
Altri gravi lutti si sono susseguiti negli anni successivi, ma furono trapassi avvenuti in solitudine, fulmini a ciel sereno che non mi hanno dato la possibilità di rivivere l’esperienza della morte. E questo me l’ha resa un po’ nemica.
La differenza l’ha fatta la malattia di Ale, arrivata senza preavviso al ritorno di una vacanza su un’isola greca trascorsa nella gioia e nei colori della vita, nei piaceri dell’estate, nella beata illusione che tutto stesse andando come volevamo noi. Tumore rinofaringeo. Il primario mi disse che certo, era un tumore maligno, ma che seguendo il protocollo di cura sarebbe stato guaribile al 96 per cento, almeno entro i primi cinque anni.
Non è andata così, e oggi è inutile chiedersi o raccontarsi perché. Ciò che è utile raccontare, invece, è come io, che non sono mai stata amica della morte, ho vissuto questa esperienza.
In seguito all’aggravamento della malattia che ha richiesto il ricovero in pronto soccorso e poi all’hospice, senza sapere né volere ho lasciato andare ogni forma di volontà e perfino di preghiera, e mi sono dichiarata disponibile ad accettare ciò che sarebbe accaduto, nel bene e nel male. La sofferenza c’era, la paura di ciò che sarebbe potuto succedere anche. Ma prevalevano la serenità, l’accettazione di “ciò che è”, la fiducia nella direzione degli eventi, anche se l’aria che tirava non mi piaceva affatto. Mi sembrava un miracolo, quella serenità. Spesso ho pensato che me la stessi inventando per sopravvivere all’idea di un dolore intollerabile, per respingere uno scenario inaccettabile dopo i lutti degli ultimi anni. Mi sono messa in discussione più volte per trovare l’escamotage, il trucco che – non c’era dubbio – dovevo essermi inventata per far finta di star bene. Non l’ho trovato, per fortuna. Lo confermavano i sonni ristoratori che facevo di notte, pur essendo stata all’hospice fino a sera tardi. I risvegli di buon umore. La buona energia che trovavo per lavorare.
Sentivo di essere aiutata.
Tornando da Venezia, dopo un bellissimo weekend, mi sono fermata all’hospice a trovare Ale. Non lo vedevo da tre giorni. Sono entrata nella sua stanza. La luce era spenta e dormiva. C’era qualcosa di strano perché nonostante la sofferenza causata dalla malattia ormai all’ultimo stadio, appena sentiva il passo di qualcuno che entrava a trovarlo si voltava e in qualche modo trovava il sorriso e la voce per accoglierlo con gioia. L’infermiere di turno quella domenica mi disse che dormiva dal mattino. Non gli feci altre domande ma gli chiesi di avere delle lenzuola per poter dormire sulla poltrona letto, nella sua stanza. Sapevo che non mi sarei mossa da lì fino alla fine.
La fine è arrivata dopo tre giorni, ma nel frattempo ci sono stati ancora momenti di gioiosa condivisione. Per tre giorni gli ho letto i libri di Andrea e Antonella (me l’aveva chiesto lui), leggendo ad alta voce per lui, per me, per le infermiere e i medici che entravano ad ogni ora. Anche per il prete che, d’ufficio, l’ultima mattina gli ha dato l’estrema unzione.
Il penultimo giorno abbiamo perfino brindato. Erano venuti a trovarlo Alessandro e Valeria e aveva voluto stappare con loro, per loro, un ottimo Brunello di Montalcino. Sapevamo tutti, sapevamo tutto. Prima che i suoi amici se ne fossero andati, Ale si è addormentato e da quel momento, senza saperlo, ho vissuto l’esperienza più intima e commovente della mia vita.
Ho trovato il coraggio, anzi l’Amore, di dire ad Ale che era libero di andarsene, che eravamo pronti, che ce l’avremmo fatta. Per ventiquattro ore sono rimasta ad ascoltare il suo respiro: era musica, era presenza, era “io sono quello”. Mi sono nutrita di vita, ascoltando il suo respiro. Ho compreso, e se me lo chiedesse un giudice in tribunale giurerei che è vero, che la vita è respiro. E che vita e morte sono la stessa cosa, si susseguono e si alternano, ma tra uno stato e l’altro non cambia nulla.
Contavo i respiri come quando Antonella ci chiede di contare nella meditazione, eppure sapevo che in quei respiri la vita di Ale, quaggiù, si stava esaurendo.
Ho visto la morte arrivare piano piano, naturalmente, senza che cambiasse niente nel suo corpo, nel suo volto addormentato, neppure nell’ambiente intorno. Il suo respiro era sempre uguale, regolare e preciso. Solo negli ultimi minuti la distanza tra un respiro e l’altro si era fatta più lunga, lasciandomi in uno stato di attesa strano, un po’ irreale, sospeso. Finché il respiro successivo, quello atteso, non è più arrivato.
Raramente mi sono commossa di fronte a tanta semplicità.
Ora c’è qualche momento di nostalgia, nostalgia di ciò che ancora avrebbe potuto essere e che non sarà. Ma la commozione è sempre accompagnata da un sorriso e da un senso di gratitudine immenso, infinito.
Bentornato a casa, Ale.
È strano come nei momenti più densi e cupi si aprano spiragli leggeri e freschi. Anche solo per pochi istanti. Quella freschezza che senti da bambino quando ti svegli in un mattino di primavera. E sembra fuori posto. Ma lo è veramente?
Grazie per questi ricordi così vividi e vivi.